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sabato 22 settembre 2012

un paese moderno



L’industria, per essere moderna deve innovare.
L’Italia è stata fra le maggiori potenze industriali del pianeta ma ora è in declino perché l’industria italiana non ha saputo mettere sul mercato prodotti nuovi e di qualità.
L’industria italiana ha campicchiato lucrando sulle ripetute svalutazioni della lira che governi compiacenti sfornavano periodicamente, riuscendo così a esportare prodotti mediocri ma a buon prezzo per gli acquirenti. Gli industriali si arricchivano, i politici si nutrivano e il conto della svalutazione lo pagava il Paese che doveva importare. Ci fu un momento in cui i tedeschi venivano a comprare le Mercedes dai concessionari italiani, per pagarla meno grazie al vantaggioso spread di valore del marco sulla lira.
L'industria non ha investito in ricerca per prodotti moderni e adesso, senza il giochino della svalutazione della lira, non si esporta più e si langue e i capannoni del mitico nord-est chiudono, i padroni si riposano fra immense ricchezze esportate e no e i loro operai sono disoccupati.
Siamo fra i maggiori consumatori al mondo di telefonini, ma non ne produciamo. 
Non investimenti, non ricerca: prosperano in Italia aziende che parassitando l’etere, guadagnano miliardi di euro facendosi pagare telefonate e SMS ai prezzi più alti del mondo.
I computer sono ormai in ogni casa, ma la Olivetti chiuse perché non aveva 100 milioni da investire. Ora i PC li compriamo dall’estero e le compagnie dell’ADSL intascano miliardi facendosi pagare la connessione che invece dovrebbe essere di tutti e in vaste aree del mondo è già gratuita. I computer li importiamo, al pari dei telefoni e anche le compagnie dell’ADSL ormai vengono da fuori.                                                                                    
Nella patria del buon cibo e della dieta mediterranea dilagano i McDonald dei grassi saturi che si depositano nel salvagente di ciccia che tutti i ragazzini ormai  portano alla cintola a debordare coll’ombelico da sotto le magliette corte. Non abbiamo industrie italiane che abbiano seriamente investito nel food. Quelle che c’erano, dopo decenni di assistenzialismo statale, hanno chiuso travolte dal magna-magna cedendo il mercato alle straniere e il Paese produce distribuisce e commercia cibo secondo il protezionismo unico della grande distribuzione che stabilisce cosa si coltiva, chi, dove, quando, chi vende, chi non vende e a che prezzo, chi deve chiudere e chi può sopravvivere se accetta la schiavitù dei budget sui prodotti da collocare.
La FIAT di Marchionne, per restare in Italia vuole che lo Stato gli dia denaro contributi e regalie, come accade in Brasile e in Serbia. Dimentica Marchionne che l’Italia i tributi alla FIAT li paga da un secolo costruendogli le fabbrica intere, asfaltando tutta la penisola, mortificando il trasporto pubblico così da costringere gli italiani a comprare l’automobile, azzerando il trasporto merci su treno e su nave per lasciare che i TIR IVECO impazzino in ogni anfratto del patrio suolo. Dimentica che per fargli vendere macchine che altrimenti non avrebbe venduto l’Italia gli ha fatto leggi di rottamazione ogni treperdue e che adesso i rottami non sappiamo più dove metterli, le discariche sono a spese degli Italiani, ovviamente, non delle industrie produttrici. Dimentica che oggi esiste la zona industrializzata che qualche testavuota chiama Padania perché i governi italiani del dopoguerra procurarono mano d’opera a basso costo alla FIAT costringendo i popoli del Sud a emigrare verso Torino e il suo indotto e distruggendo l'economia e il tessuto sociale di un Mezzogiorno che ora è nelle mani della malavita?  Agli operai emigrati a Torino, prima gliele facevano costruire le FIAT 600 e poi gliele facevano comprare, a rate, le benedette FIAT 600 e nelle fabbriche i lavoratori venivano schedati in base alle loro dee politiche e sindacali, ai bei tempi quando la polizia poteva anche sparare sugli scioperanti. Chi è responsabile di tutto questo?
La FIAT è stato un stato nello stato con azioni politiche che hanno condizionato lo sviluppo democratico del Paese chiamato a lesinare i diritti ai lavoratori per privilegiare la famelica avidità degli industriali e Marchionne ancora batte sullo stesso piano politico: ridurre i diritti per produrre di più. I diritti sono stati ridotti, l’art 18 disinnescato a disperazione e danno di milioni di famiglie,ma gli investimenti non si fanno più. Dopo il ricatto e il cedimento del Paese,arriva la beffa:i 20 miliardi non ci sono più.
Non vede Marchionne che le auto FIAT – UNO, DUNA, MAREA, BRAVA - non se le compra nessuno in Europa perché, a parte la fortunata Panda, non riescono a competere con le altre auto prodotte in Europa, non sono alla pari nel disain come si usa dire oggi e neppure nella qualità: una Fiat nel clima di paesi come la Germania dove non si usa il miniappartamento per l’automobile, non regge due anni, arrugginisce prima. E la quota di mercato si abbassa rispetto alle altre marche perché i modelli non sono all’altezza. Una multinazionale che non sa immettere sul mercato prodotti credibili, neanche nel suo paese d’origine, deve rivedere tutto a partire dal suo top-mannagement e non si può permettere di punire l’Italia che invece per un secolo è stata piegata ai suoi voleri da governanti asserviti che hanno deturpato il Paese fisicamente socialmente e politicamente per compiacere la Fabbrica Italiana Auto Torino.

1 commento:

  1. Condivido tutto o quasi, ma sulla Fiat va fatto un altro discorso.
    I guai - e la conseguente evoluzione americana della Fiat - sono di ordine finanziario. Nel suo capitale azionario ( con la finanziaria di famiglia) c’erano i petroldollari libici di Gheddafi (non dello Stato Libico), dei fondi sovrani ( borse, emirati e altre risorse dormienti e oscillanti da investimenti periodici) e le quote indiane. E’ da ricordare, la joint ventures con la Tata poi finita con una frizione… mal registrata. E’ accaduto che la voragine dei debiti è finita nelle mani di quei creditori interni elencati prima, che hanno dettato il da farsi e Marchionne (estremamente ambizioso) è stato l’uomo giusto per riequilibrare i conti. Andarsene dall’Italia non era possibile. Restano i marchi nostrani con le produzioni estere di Serbia e Brasile, mentre nel Bel Paese dopo la prevedibile fallimentare cessione alla “Dierre’’ dello stabilimento di Termini Imerese siamo alle cassa integrazioni e alle difficoltà striscianti per gli altri.
    Chi chiuderà prima e per sempre ? Logica vuole che si cominci dal Sud: Pomigliano, Melfi, Cassino, a meno che non vengano fuori altri compratori di capannoni ma non di produzioni. E allora vai con le voci di Mazda, Volkswagen e altri. Auto, camion, trattori, scooter, chissà anche automobiline a pedali a trazione ibrida “piede e spinta’’. Scherzo, naturalmente, ma alcuni brevetti e idee del gruppo fiat (vedi il motore common rail) sono finite altrove (Ford, Hyunday ecc). E allora “fiat voluntas sua’’.
    Io ho ancora una Tempra…appena maggiorenne visto che ha compiuto 18 anni. Da 14 va a gpl e per me ha un grande valore affettivo. Qualcosina per la manutenzione, pezzi usurati, ma non intendo cambiarla, venderla o demolirla. Pensa che ho ricevuto tre offerte per cifre oscillanti (ma fuori mercato) comprese tra i 300 e i 500 euro. ‘’ …Sa, mi hanno detto, per la campagna e con un gancio…andrebbe proprio bene’’. Campagna, traino ? Se me lo chiederanno trainerò anche la Fiat, con accanto Marchionne, e nel capiente portabagagli anche qualche sindacalista che si è venduto per una accelerata verso il paramento.
    Ma questo è un altro discorso. Alla Fiat serve un management da “made in italy’’,
    che si ripieghi sugli errori del passato, coperti dagli incentivi a fondo perduto..
    Anche questa è un’altra storia, magari una di quelle descritte dal nostalgico Peppe Lomonaco…

    Ciao, Franco Martina

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